| PROLOGO Di' il vero, resta immobile, finché l'acqua sarà limpida.
Meditazioni dei Tiste Andii
LIBRO PRIMO Questa creatura di parole taglia E sobbalza, guizza via E allontana gli schizzi di pioggia rossa Sotto un limpido cielo azzurro Sconvolta da ciò che è rivelato A cosa serve ormai quest'armatura Quando parole così facili scivolano via?
Questo dio di promesse ride Per le cose sbagliate, nel momento sbagliato Disfacendo tutti questi sacrifici Con voluta malizia Indietreggia come un soldato sconfitto Anche quando la ritirata è negata Prima che i corpi diventino alte mura
Sapevi che tutto ciò sarebbe giunto Finalmente e non fingi nulla, nessuna sorpresa Nel trovare questo bicchiere colmo Del dolore di un altro Non è mai così terribile come sembra Il sapore più dolce del previsto Quando ti accucci nel sogno di uno stolto
E allora porta questa belligeranza Dove vorrai, la cura caparbia È il prezzo della mia anima Verso il centro della strada Ruotando su se stessa le zanne scoperte Azzannando lance assetate Affonda nel freddo e purifica le tue mani
Parole di caccia Brathos di Corallo Nera
CAPITOLO UNO
Oh, fragile città! Dove giungono gli stranieri Spingendo nelle fenditure Là per abitare
Oh, città blu! Vecchi amici si radunano sospirando Ai piedi dei moli Dopo la marea
Città senza corona! Dove i passeri si posano Nella scia dei ragni Sugli alti davanzali
Città condannata! La notte si avvicina La storia si desta Qui per abitare
Età Fragile Fisher kel Tath
CAPITOLO DUE
Anomander non direbbe menzogne, né vivrebbe nella menzogna, e quella sordità potrebbe benedirlo nei giorni e nelle notti al di là delle piogge nere di Corallo Nera. Ahimè, così non sarebbe stato.
...
E così scegliemmo di non sapere nulla Del temuto scricchiolio, dello slittamento e dello schiocco Di ruote di legno, del sussulto sulla pietra E del forte tintinnio di catene, come se Su qualche altro mondo sia dove l'oscurità Emerge da una forgia maledettamente eterea E nessun sole sorge oltre la linea ondulata Dell'orizzonte, un qualche altro mondo non certo il nostro - Sì benedici così, Anomander, con questa Santimonia, questa menzogna e tenero conforto, E gli schiavi non siamo noi, questo peso È solo un'illusione, queste catene potrebbero spezzarsi Con un pensiero, e tutte queste grida e Lamenti sono meno dei sussurri Di un cuore quiescente; è tutto tranne che una storia, Amici miei, questa alta creatura che nega l'adorazione, E la spada che porta non contiene nulla, Nessun ricordo, e se esiste un luogo Nell'intimo schema per le anime perdute Che avanza verso un tempio sradicato Non risiede certo in una mente difettosa E non allineata con sobria tortuosità; Niente è confuso come quel mondo confuso E quel conforto ci lascia rispettosi Ciechi e sordi e scioccamente in pace Nel nostro luogo immaginato, questo prezioso ordine...
Soliloquio Anomandaris, Libro IV Fisher kel Tath
CAPITOLO TRE
E lui sapeva che restare là Sarebbe stata un'impresa implacabile Inarrestabile come i sacrifici compiuti E i giuramenti di sangue pronunciati Ne sapeva abbastanza da aspettare da solo Prima della carica della furia del calore I canti di vendetta Dove le spade si incroceranno E dove un tempo c'erano i mortali Restano ancora i sogni di casa Se almeno una porta dorata Poteva essere forzata. Ha consumato fiato nel mercanteggiare O si è allontanato? Ha sorriso compiaciuto Nella ricerca del castigo?
(Guardalo, lui è là Mentre tu resti, implacabile Il poeta ti maledice L'artista grida Colui che piange Gira il viso da un'altra parte La tua mente è affollata Dall'irrilevante Dall'elenco dei dettagli Del minuscolo E di ogni misura Di ciò che non significa nulla Per nessuno
Lui assorbe da te ogni collera Ogni crimine... Che ti piaccia O meno... I sacrifici compiuti I giuramenti pronunciati Lui è da solo Perché nessuno di voi osa Stare con lui)
Contestazione di Fisher ai suoi ascoltatori, interrompendo la narrazione di La criniera del Caos
CAPITOLO QUATTRO
Stavamo annegando tra petali e foglie Nella Pianura di Sethangar Dove i sogni si agitavano come eserciti sulla spianata E cantare la bellezza di tutti quei fiori Era dimenticare il sangue che nutriva ogni radice Nella Pianura di Sethangar Gridammo a gran voce per un rifugio da quella feconda tempesta Lo slancio e la spinta di vita sui venti setaccianti Erano aridi come la voce di un sacerdote in ardente tormento Nella Pianura di Sethangar E nessuna parola saggia poteva essere udita nel fragore Dei fiori ridenti che si allungavano verso l'orizzonte Mentre il respiro pungente ci lasciava ubriachi e traballanti Nella Pianura di Sethangar Dobbiamo morire nell'abbondanza della nostra dissipazione Soccombendo ogni volta alla terra fredda e scura Solo per erompere liberi e ingenui in una nascita innocente Nella Pianura di Sethangar? Quale dio calpesta questo campo la falce in mano Per recidere la pomposa pantomima con giudizio tagliente Prendendo dalle nostre anime tutta la volontà in fasci legati Nella Pianura di Sethangar Per nutrire a dovere tutte le bestie onerose? I fiori adoreranno il dono mutevole di luce dell'albero Le foreste si allungheranno nella dolcezza di un cielo intoccabile Mentre i fiumi compiranno il pellegrinaggio verso il mare E la pioggia cercherà l'unione con la carne e il sangue Le colline resisteranno sopra ogni pianura, anche quella di Sethangar
E così noi sogniamo la fine dell'ingiustizia Come se rientrasse tra i nostri poteri Là nella semplicità della nostra attenzione Così miseramente cieca alla bellezza...
Dichiarazione (frammento) (?) Keneviss Brot Primo secolo del Sonno di Burn
CAPITOLO CINQUE
Prega, non parlarmi del tempo Del sole, delle nuvole, dei luoghi Dove nascono le tempeste Non voglio sapere del vento che percuote l'erica Né della neve, della pioggia, né di antiche tracce Su pietre grigie e consunte
Prega, non m'intrattenere con i guai della malattia Tuoi, dei tuoi parenti, della donna anziana Alla fine della strada Non ci dedicherò tempo né pietà, che non dona benessere, Né pensieri, né sentimenti, né sudari tessuti Per tentare la fortuna
Prega, raccontami di profondi abissi attraversati Non lasciati, non aggirati, non parlarmi dei tradimenti Che si riproducono come i vermi Vorrei che gridassi la tua rabbia per ciò che è perduto Ora sii forte, ora piangi, e avanza Sulla solida terra
Prega, canta a squarciagola le infelici glorie dell'amore Ora sofferente, ora ubriaco, ora strappato alla ragione Nelle lacrime e nelle risate Vorrei che trattassi con le eccentriche divinità lassù Né preoccupazioni, né costi, né cambi di stagione Verso i timori invernali
Cantami tutto ciò e ti troverò risoluto Adesso sai, adesso vedi, adesso davanti Alla tempesta ululante Canta la tua vita come una vita senza fine E il tuo amore, fuoco solare, sul suo cammino celestiale Dove è nata la verità
Prega, una fine alle cose irrilevanti Baedisk di Nathilog
CAPITOLO SEI «Il miracolo del senno di poi sta nel modo in cui trasforma grandi geni militari del passato in idioti incompetenti, e idioti incompetenti del presente in grandi geni militari. Là c'è la porta, e assicurati di prendere con te tutte le tue pompose illusioni...».
Imperatore Kellanved In occasione della conquista del Gran Consiglio di Falari (La Prova di Crust)
LIBRO SECONDO Dalle costole di lei e dai capelli delle donne Che nuotano nei fiumi scaldati dal sole nella luce d'estate, Da volti sereni e occhi limpidi Che guardano fuori dalle finestre della torre quando scende la notte
Da mani avvolte intorno a pipe intagliate nell'alabastro Quando velati inviti timidi come i boccioli nell'ombra Invitano la danza di una vergine un amore screziato come una rosa E una matrona rugosa non è ancora pronta a svanire
Lunghe gambe attorcigliate Oscillano mentre una tempesta tropicale si scatena sulla bianca sabbia di corallo E in tutti questi ricordi ho cercato Di modellare questo amore dalla terra lavorata Con le mie mani
E nel pergolato di fluttuanti petali intrecciati a ghirlanda Si aggira timidamente il viso sconosciuto e familiare della donna ritrovata Perché su questa terra la solitudine non è la benvenuta E lei che se n'è andata deve essere sostituita
E dallo sguardo nei suoi occhi io sono un uomo complesso Assemblato dalla pietra, i ramoscelli e i sedimenti smossi Amanti perduti e tutti quelli che avrebbero potuto essere Noi non dovremmo protestare né alimentare brucianti rancori Poiché tutti i fiumi del mondo non corrono che in una Direzione
L'Amore dello Spezzato Breneth
CAPITOLO SETTE «Comprendo le tue ragioni, amore mio. Ma non ti verrà sete?».
Iscrizione portata alla luce sotto la pietra di coronamento di un pozzo privato, Distretto Frontelago, Darujhistan
CAPITOLO OTTO
Quando lui non può stare solo Nell'oscurità dove non un'ombra vive Il cui più prezioso io rifiuta il trono Mentre il niente afferrato in vita dura un attimo di più Di ciò che è intagliato nelle stesse ossa Ma qui è dove staresti Al suo posto e dove vedresti tutto cupo e represso Una serie di armi ognuna forgiata Per la violenza
Quando lui non può stare solo Dove l'oscurità scivola nell'immenso abisso E ogni desiderio cerca una nuova casa Mentre ogni lotta lascia il docile al più forte E i caduti giacciono sparpagliati come sassi Ma questa è la vita che prenderesti in mano Per guidare lui attraverso il cammino così spezzato così agitato Come l'arma del tuo volere ora sostenuta In gelido equilibrio
Quando lui non può stare solo Nell'oscurità dove ogni ombra è persa E l'io stanco vagherà
Dove niente è abbandonato se non questo straniero protetto In piedi contro gli eterni gemiti del vento Ma questo è il tuo eroe e deve fare la guardia Ai tuoi desideri spezzati la bandiera stracciata spiegata Che si innalza al di sopra del bastione per vedere il tuo dispetto purificato Nel suo silenzio
Anomandaris, Libro III, versi 7-10 Fisher kel Tath
CAPITOLO NOVE
I tori camminano sempre soli verso la solitudine Del proprio sé Incedendo impettiti nel loro manto di sudatorio feltro Ogni vena gonfia Spavaldi e orgogliosi nei loro bisogni bestiali Tonanti nel passo Fate largo, fate largo, le spade letali Uccidono il cuore delle damigelle Coprite la ferita che s'allarga via via: quale dolce attenzione! E noi dobbiamo spasimare Davanti a occhi arrossati non troverai colpa Nel sé così provato E l'appassionata carica del seme più fertile Canta come la pioggia degli dei Fate largo, fate largo, un'altra parola audace La ballerina teme un passo falso Nei frettolosi tamburi della moltitudine
Zerbinotti del Passeggio Seglora
CAPITOLO DIECI
Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce Quando i musicisti sono avviluppati dalle fiamme Gli strumenti ridotti in cenere Quando i ballerini incespicano e cadono e distendono gli arti malati La pelle sottile e putrida che scivola via
Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce Quando le stelle che spingiamo in cielo perdono il loro ruggito E le nuvole che creiamo con la nostra ira sono pronte a esplodere Quando gli scintillanti principi marciano con Sorrisi di morte E dai loro volti crollano le maschere ingannatrici
Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce Quando la ragione affonda negli abissi della superstizione Muovendo una guerra di diecimila armate Quando smettiamo di sollevare lo sguardo anche mentre cominciamo la nostra folle corsa Nel vuoto della stupidità accompagnati dalle grida di cori celestiali
Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce Quando i musicisti non saranno altro che bastoni neri E gli strumenti innalzeranno il loro lamento di morte lungo la via Quando a quelli ancora in piedi è stata strappata la lingua Lasciando un buco dal quale soffia un vento carnale
Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce Il fuoco divora il mio respiro e la sofferenza riempie questa canzone Quando le mie dita si spezzano sulle corde e cadono dalle mie mani E questa danza contorce ogni muscolo come una fune incandescente Mentre la tua risata segue il mio corpo accasciato
Non verrai da me e mi dirai quando la musica finisce Quando potrò balzare via e affrontare un dio o un migliaio di dei O niente del tutto in questa benedetta gioia dell'oblio Quando potrò spalancare questo contenitore e liberare la furia amara e crudele Contro tutti i folli stolti che affollano la porta in una fuga disordinata
Guardami e guardami con occhi spalancati e attoniti Con incredulità con orrore con indignato risentimento E i No urlati sono come colpi di tamburo che annunciano una verità La musica finisce amici miei, miei vili e spregevoli amici, e guardatemi Guardatemi sbattervi la porta... in faccia!
La musica finisce Fisher kel Tath
CAPITOLO UNDICI
Chi sei tu per giudicare se lei sia giovane o vecchia, e se stia tirando su o giù il secchio nel pozzo? E se sia graziosa o insignificante come biancheria stinta, se sia una vela trasportata dal vento dell'estate, splendente come gli occhi di una fanciulla sopra un mare blu? Il suo incedere è piacere e promessa di sogni come se la terra potesse cantare la sua fertilità, come allegre farfalle in un campo fiorito, o questa sella si è accasciata in cascate di frutti maturi e non cavalca più tra orti in fiore? Chi sei tu per ingabbiare nel presuntuoso ferro quel mistero che ci chiama alla vita dove oscilla il traboccante secchio, continuamente sospeso tra oscure profondità e luce corale. Lei è bella e anche questa è un'esortazione criminale, e niente che valga la pena verrà trovato in relazione a te che faccia qualcosa di più che tendere questa fune sfilacciata: che vergogna! Il rifiuto è portatore di profonde ferite e lei se ne va e si allontana confusa. Non osare parlare di equità, non osare avanzare crudeli giudizi quando io sono qui a guardare e tutti i calcoli tra un battito di ciglia e l'altro invitano la moltitudine al disprezzo; e guarda quella vela che scivola sempre più piccola al di là di te, come è suo privilegio là sul mare di fiori. Dolci fragranze che turbinano nella sua scia, e mai ti raggiungeranno, e questo è equilibrio, è misura, è l'osservazione di stranieri che nascondono le loro lacrime quando volgono le spalle.
Giovani contro un muro Nekath di Gattoguercio
CAPITOLO DODICI
Dove sarò Quando le mura cadranno A est del sole che sorge A nord del volto dell'inverno A sud di dove nascono le stelle A ovest del sentiero della morte
Dove sarò Quando i venti soffieranno impetuosi Fuggendo dall'alba Urlando con lingue di ghiaccio Gonfiati dal sorriso del deserto Coperti della polvere delle cripte
Dove sarò Quando il mondo cadrà a pezzi E io rimarrò esposto Alle armi infallibili Del tanto odiato nemico
Come potrò affrontare Queste forze oscure Barcollando sotto ogni colpo Accecato dal dolore lancinante Mentre tutto mi verrà tolto Tutto mi verrà crudelmente strappato
Non parliamo di coraggio E neppure di forza d'animo I doni della saggezza Sono troppo roventi per essere toccati Il desiderio di pace Spezza il cuore
Dove sarò Nella polvere di una vita finita Solo davanti ai rimpianti Che flagellano il viso conosciuto Fino a quando solo gli stranieri Assisteranno alla mia caduta
Solo stranieri Fisher kel Tath
LIBRO TERZO Continua fino al prossimo istante Non pensare adesso, risparmiati Per quando il pensiero mostrerà Il suo volto inutile Quando sarà troppo tardi e il timore svanirà Nella rincorsa di un riparo
Continua fin oltre quella buca Così che venga meno la sua tormentosa presenza E niente val la pena di fare Nell'ottusa grazia Quando tutte le legittime supposizioni Sovrastano le tue grida
Continua fin dentro quella profonda voragine Non vuoi sapere Potrebbe sprofondare e portare alla tua mente Crudeli ricordi Quando tutto quello che avresti potuto fare è ormai passato No non ti angustiare
Continua fino a quell'angolo È inutile, e allora risparmiami il dolore Non ti piaceva il prezzo da pagare, troppo elevato La ferita più crudele Quando tutto quello che cercavi era un dolce piacere Fino alla fine dei tuoi giorni
Continua fino a quando verrai respinto Grida la tua angoscia, grida a squarcia gola Non hai mai immaginato non hai mai saputo Ciò che allontanandoti sarebbe accaduto E ora ulula la tua paura in ondate di incredulità È morto è finito
Continua fino in fondo Strappa gli occhi di parenti urlanti Nessun lascito attende i tuoi figli È stato ucciso, è stato ucciso Il futuro è fuggito a nutrire qualche gloria oscura Il mondo è finito. Finito.
Confessione in punto di morte di Siban Siban di Aren
CAPITOLO TREDICI
Lo guardammo avvicinarsi da oltre una lega Barcollante sotto il peso di ciò che portava Tra le braccia Pensammo indossasse una corona ma quando si avvicinò Il diadema si rivelò la pelle di un serpente Che si mordeva la coda Ridemmo e condividemmo la brocca quando lui cadde Applaudendo quando si risollevò Con movimento lenti Ci zittimmo quando arrivò E coi nostri occhi vedemmo il fardello Che proteggeva dal pericolo Restammo seri in volto davanti al suo sorriso di sollievo E ci disse che quel giovane mondo che aveva trovato Ora era nostro Noi restammo a guardare come se fossimo divinità splendenti Contemplando un'abbondanza di doni immeritati Sfoderando i coltelli Baldanzosi nell'orgoglio recidemmo porzioni insanguinate Spartimmo quel radioso stillante bottino E mangiammo a sazietà Poi lo vedemmo piangere quando niente era rimasto Arretrare con occhi colmi di dolore e sgomento Le braccia abbandonate Ma di ogni mondo i lupi faranno una carcassa Rispondemmo rivelando la nostra natura In tutta innocenza Proclamammo con ardore la nostra umile purezza Sebbene lui ci voltò le spalle e non udì Mentre il sapore diveniva sempre più amaro
E il tradimento del veleno strisciò nelle nostre membra Lo guardammo allontanarsi ormai a una lega e forse più Il suo cammino solitario La sua dolente partenza dalla nostra umanità Il suo allegro annientamento del nostro scriteriato io Condannato a morte dal morso del serpente
Gli ultimi giorni del nostro retaggio Fisher kel Tath
CAPITOLO QUATTORDICI
Sotto lo scudo percosso del cielo L'uomo siede su una sella nera su un cavallo nero I capelli lunghi e grigi fluttuanti intorno all'elmo di ferro Non sa niente di come sia giunto qui Solo che dove si è trovato a essere è in nessun luogo E dove deve andare è forse vicino La sua barba è il colore della neve sporca I suoi occhi sono occhi che non si scioglieranno mai
Sotto di lui il cavallo non respira Né respira l'uomo e il vento geme Sulle ammaccature del suo usbergo arrugginito Ed è troppo girarsi all'avvicinamento Di cavalieri uno da destra l'altro da sinistra Su cavalli morti con occhi vuoti tirano le redini Restano in un silenzio stranamente famigliare Proteggendo il suo comando
Sotto quei tre il terreno è privo di vita E in ogni granello di cenere sono i lamenti Di tristi ricordi che scivolano nel rimpianto Ma tutto è passato e i cavalli non si muovono E così lui guarda a destra la mascella contratta Verso l'uomo con un occhio che un tempo conosceva, anche se non bene Rispondendo al sorriso beffardo con improvvisa urgenza E così chiede: «Stanno aspettando, Caporalmaggiore?».
«Sparsi sulla pianura morta, Sergente, non era ciò che volevate?». A quelle parole lui non poté che stringersi nelle spalle e posare lo sguardo sull'altro. «Osservo il vostro abbigliamento e so di conoscervi, signore, ma non ricordo». Barba nera e viso scuro, una fronte come basalto crepato Un uomo in pesante armatura che pochi potrebbero sopportare E accetta l'osservazione con un sorriso «E allora se volete, sappiatelo, Brukhalian delle Spade Grigie».
Sotto quei tre il tuono cavalca l'ignota terra Niente è repentino ma cresce come un cuore che si risveglia E le eco rotolano dallo scudo soprastante Come il ferro risuona la carica di ciò che deve essere Così ancora una volta, gli Arsori di Ponti marciano verso la guerra». E Brukhalian aggiunge: «Anche le Spade Grigie che caddero E questo che tu chiami Caporalmaggiore è rinato solo per morire, un nuovo ponte forgiato tra voi e me, buon signore».
Si girarono allora sui loro destrieri privi di respiro Per esaminare i ranghi sparsi nella pianura Che avanzano verso la guerra da dove e da ciò che un tempo sono stati Quando tutto quello che era conosciuto è tutto quello che uno conosce di nuovo E in questo luogo l'erica non sboccia mai Il sangue che deve essere versato non viene mai versato e non scorre mai Iskar Jarak, Uccello Che Ruba, siede in sella a un cavallo nero E aspetta di comandare ancora una volta
Spada e Scudo Fisher kel Tath
CAPITOLO QUINDICI
Ci definiresti deboli? La paura scivola fuori dalla bocca Ogni voce nella tua lista è un attacco Che affonda in te Mostrando il terrore Che distrugge il potenziale per lo stupore
Con voce monotona esponi il tuo pensiero Come se non affermassi altri se non l'ovvio Ed è così ma non nel modo che tu pensi Il patos rivelato è la tua pochezza Di saggezza travestita da insignificante dialettica Dalla tua torre del ragionamento
Come se solo i muscoli parlassero di forza Come se l'altezza misurasse la circonferenza della volontà Come se il fuoco domestico non potesse divorare una foresta Come se il coraggio fluisse via perduto ogni mese In fiumi di sangue morto
Chi è costui per dare voce a simili dubbi? Sacerdote di un culto falso nella sua divisione Io ero là il giorno in cui la folla si svegliò E prese d'assalto il tempio di semi-uomini spaventati Tu te ne stavi a bocca spalancata dietro di loro Mentre i tuoi insegnamenti si rivelavano sbagliati
Arretra dalla vera rabbia Fuggi se puoi da questa forza crescente La forma dell'ira contro le tue riconosciute Giustificazioni è la mia disciplina di soldato Sicura nell'esecuzione e nel singolare obiettivo Di sistemare la tua testa in cima alla lancia
Ultimo giorno della Setta dell'Uomo Sevelenatha di Genabaris (citato in "Trattato sulle filosofie insostenibili dei culti" Genorthu Stulk)
CAPITOLO SEDICI
E queste cose non sono mai state tanto preziose Ascolta l'uccello in gabbia mentre parla Con la voce di un uomo moribondo; quando lui se ne sarà andato La voce vivrà per salutare e dispensare vuote Assicurazioni con casuale pathos
Io non so se potrei vivere con tutto ciò Se potrei armarmi mentre il becco inumano Si apre al ricordo di un uomo morto, la testa inclinata Come a incanalare lo spirito di colui Che immagina un'assenza di senso, un vuoto in attesa
La gabbia è bloccata e di notte scende il velo A zittire le parole di impossibili apostoli Spiriti di semidei e abissi immensi, nuvole impenetrabili Tra i vivi e i morti, tra chi c'è e chi è andato Dove nessun ponte può addolcire il passaggio del dolore
E queste cose non sono mai state tanto preziose Ascoltare l'uccello mentre parla e parla E parla, quello che è svanito via Il padre defunto conoscendo ciò che è sconosciuto E parla e parla e parla Con la voce di mio padre
Uccello in gabbia Fisher kel Tath
CAPITOLO DICIASSETTE Il mio miglior studente? Un giovane uomo, fisicamente perfetto. Guardare lui era vedere lo spadaccino perfetto. La sua disciplina era fonte di soggezione; la sua forma era l'eleganza personificata. Sapeva spegnere una dozzina di candele con affondi successivi, ogni affondo identico a quello precedente. Sapeva infilzare una mosca ronzante. Nel giro di due anni non potei fare più nulla per lui, poiché mi era ormai di gran lunga superiore. Al suo primo duello non ero, ahimè, presente, ma mi venne descritto nei dettagli. Il suo talento, la sua perfezione nella forma, la sua precisione, la sua possanza muscolare. Rivelò un solo difetto. Era incapace di combattere contro una in carne e ossa. Un avversario di capacità medie può essere incredibilmente pericoloso, nella sua goffaggine può sorprendere, e una preparazione mediocre può confondere le più brillanti capacità di difesa. La totale imprevedibilità di un vero avversario in un duello per la vita o la morte offrì al mio studente la sua ultima lezione. Si dice che il duello durò una dozzina di battiti. Da quel giorno, la mia metodologia di insegnamento è cambiata. La forma è molto piacevole, la ripetizione persino essenziale, ma l'esercitazione al vero affondo con stoccata deve iniziare entro la prima settimana di allenamento. Per essere un duellante, uno deve duellare. La cosa più difficile da insegnare è come sopravvivere.
Trevan Ault II secolo, Darujhistan
CAPITOLO DICIOTTO
Lui è invisibile, uno in una folla che nessuno nota Non oltrepassare quel volto dimenticabile Non strisciare dentro alla ricerca del ruscello Mentre scorre nel buio orrore da un luogo all'altro
Lui è una cosa comune, in alcun modo particolare Che non permette a nessuno l'accesso agli sconnessi gradini Giù da quegli occhi che annegano la stella solitaria Noi condividiamo coraggiosamente queste umane profondità
Non tuo fratello, non il salvatore di qualcuno Lui incalzerà più da vicino per cercare i tuoi abiti Spingerà da parte la debole mano che cerca di accendere La luce della compassione (l'umidità, morendo sorge)
Lui ha estirpato il suo giardino E ha colto ogni ultimo rimasuglio di carne calda Con paura come artigli e denti famelici quando da solo Vaga per questa terra desolata di brace e cenere
Io guardo con terrore mentre lui sale sul nostro trono benedetto Per deporre il suo mantello di vergogna come un sudario E risveglia in noi l'illusione di un nido caldo Un santuario che lui non conosce, uno nella folla
Lui trae il suo potere dalla nostra indifferenza Sminuzzando il banale e il comune Nessuna volontà congiunta da opporgli in sfida E uno a uno, lui ci uccide
Un re prende il trono (incisa sul Muro dei Poeti, Prigioni Reali, Unta)
LIBRO QUARTO Come ardesia spezzata Prendiamo il nostro odio E creiamo alte cataste Che rotolano sulle colline Una linea irregolare per tracciare La nostra ascesa e la nostra caduta E io vidi nella luce suffusa Dell'alba Corvi allineati in fila Lungo il muro sbilenco Venuti a nutrirsi
Ossa sparpagliate Ai piedi del muro Rovine accatastate Di assalti passati I corvi si guardano intorno Per scorgere gli avanzi Su entrambi i lati Poiché nonostante la sua debolezza Il mondo non può spezzare Ciò che noi facciamo Del nostro odio
Ho guardato i minatori Trasportare le rocce grigie Lavoravano Si massacravano e percorrevano Infallibilmente modesti sentieri Un pezzo dopo l'altro Prepararono una carneficina Di altri innocenti Mentre borbottavano Su ondate di caldo E buone azioni
Noi i Costruttori Hanasp Tular
CAPITOLO DICIANNOVE
Prega di non sentire mai un respiro impreciso Catturato nella sua irregolare ragnatela Alla fine tutti gli dei voltano le spalle E non un sussurro risuona Non gettare una vita aspettando la morte Catturato nella sua irregolare ragnatela Che aleggia nell'istante successivo che dovrai affrontare Mentre risuona il tuo ultimo sussurro Prega di non sentire mai un respiro irregolare
Ragnatela irregolare Fisher
CAPITOLO VENTI In vuoti boschetti e stanze del campanile La vite arretra e il muschio rotola dentro Il vuoto da dove è giunto In basse tombe e cripte aperte Le ossa tremano e le ombre fuggono Negli spazi tra respiri In torri inclinate e ingressi polverosi Gli echi tacciono e i sussurri muoiono Uomini in maschere gettano dadi contro le pareti In stipi oscuri e sotto le assi dei letti Marionette scuotono le braccia e occhi dipinti si sgranano Alla canzone che scende dalle colline E l'anima sussulta nella sua caverna Picchiata e indebolita, terrorizzata Questa è la musica della bestia Il clamore del mondo in trappola Inizia la sua folle carica La caccia comincia amici miei I Segugi sono tra noi.
Preludio Pedaggio ai Cani Fisher
CAPITOLO VENTUNO
Amico mio, questo non è il luogo I fiori recisi giacciono sparsi sul sentiero E la luce della luna luccica In ciò che gli steli sanguinano
Nel giorno appena perduto Ho guardato una vespa nera schizzare verso la superfice Di una ragnatela, e ho visto il ragno cadere E poi essere catturato a mezz'aria
I passi non lasciano traccia Nella scia dell'ira di una creatura affamata Puoi solo giacere nella speranza, sognando Che lei abbia solo sfiorato il terreno
E che danzando sia scivolata via come un sospiro Nascondendosi sotto foglie oscillanti al vento Mentre la cacciatrice ronza e ascolta Ma tu prega perché niente venga trovato
Amico mio, questo non è il tuo volto Così pallido e immobile e che mai più riderà Quando è giunta la luce della luna e poi si è fermata Fredda come argento nella radura
Ripensa alla giornata, perduta per sempre Guarda nella notte, dove le cose si confondono La ragnatela si distende vuota, il vento geme In fili di canzoni assenti
(Canzone de) Il vecchio amico Fisher
CAPITOLO VENTIDUE Lui avanzò fino alla fine del sentiero e mi chiese, «Vedi ciò che ti aspettavi?». Una domanda spontanea, che rotolò via. Una domanda emersa dalle pietre e persa In pensieri di ciò che il destino crudele avrebbe ora decretato.
Lui si lasciò andare nella polvere e sul suo volto apparve il dolore, «Hai visto solo ciò che credevi?». E io abbassai lo sguardo dove il sangue aveva lasciato le sue tracce Il peso di ciò che è dato, di ciò che è ricevuto Di ciò che annuncia l'ultima marcia funebre di questa lunga campagna.
«No», risposi, «non sei ciò che mi aspettavo di vedere». Giovane come la speranza e sincero come l'amore era il mio nemico. «Gli scudi sono stati lucidati, splendenti come un mare inondato dal sole, E il coraggio ormai in procinto di affogare mi ha trascinato verso questa calamità. Le aspettative hanno decretato la mia morte».
Lui parlò e disse, «Non puoi combattere contro l'uomo che eri, E io non posso uccidere l'uomo che diventerò un giorno, Il nostro nemico sono le aspettative scagliate avanti e indietro, I ricordi che hai scelto e i sentieri che io percorrerò. Assassini di sogni, seminatori di rimorsi, ecco ciò che siamo».
Soldato alla fine dei suoi giorni (frammento) Des'Ban di Nemil
CAPITOLO VENTITRE
Chiedi ai morti cosa affrontano Mentre afferrano il sipario e lo sollevano Su queste piste pietrose su questi mondi ciechi Dove andare a tentoni significa ricordare Tutti i preziosi monili della vita
Chiedi ai morti cosa vedono In quell'ultima occhiata alle spalle Queste corde prive di nodi Dove ogni nerbo è teso Per allungarsi e toccare un'ultima volta
Chiedi ai morti che cosa sanno Quando sapere non significa nulla Braccia piene e cariche di cianfrusaglie Come per costruire di nuovo una casa In luoghi dove non siamo mai stati
Chiedi ma i morti non risponderanno Dietro al velo di acqua salata Gridano ora con voce stridula tra i resti putrefatti Quando i vermi svaniscono Nella ricchezza del silenzio
I tesori perduti di Indaros Fisher kel Tath
CAPITOLO VENTIQUATTRO
«Non esiste lotta troppo dura, né differenze troppo schiaccianti, poiché anche se falliremo, se dovessimo cadere - sapremo di avere vissuto».
Anomander Rake Figlio dell'Oscurità
EPILOGO
Inveisci e poi dimmi che Non tutte le storie sono un dono Quando il tormento affonda Ancora di più il coltello E il sangue è diluito dalle lacrime
Grida per l'ingiustizia Che non tutte le storie sono un dono In un mondo aspro di conflitti Che ci lascia spogli Le gesta che impallidiscono con gli anni
E io incontrerò il tuo sguardo Che non sussulterà né sarà timido Mentre avvolgerò la morte nella vita E ti sconcerterò con una Schiera di paure mortali
E allora io dirò che Ogni racconto è un dono E le cicatrici che entrambi portiamo Passeranno facilmente inosservate Nella distanza tra noi.
Anatema del Bardo Fisher kel Tath
Edited by SparklingLu - 19/11/2020, 18:23
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