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Epigrafi, Raccolta delle epigrafi de I Segugi dell'Ombra

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view post Posted on 19/11/2020, 17:20     +3   +1   -1
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Soldato

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Pescara

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PROLOGO


Di' il vero, resta immobile, finché l'acqua sarà limpida.

Meditazioni dei Tiste Andii

LIBRO PRIMO


Questa creatura di parole taglia
E sobbalza, guizza via
E allontana gli schizzi di pioggia rossa
Sotto un limpido cielo azzurro
Sconvolta da ciò che è rivelato
A cosa serve ormai quest'armatura
Quando parole così facili scivolano via?

Questo dio di promesse ride
Per le cose sbagliate, nel momento sbagliato
Disfacendo tutti questi sacrifici
Con voluta malizia
Indietreggia come un soldato sconfitto
Anche quando la ritirata è negata
Prima che i corpi diventino alte mura

Sapevi che tutto ciò sarebbe giunto
Finalmente e non fingi nulla, nessuna sorpresa
Nel trovare questo bicchiere colmo
Del dolore di un altro
Non è mai così terribile come sembra
Il sapore più dolce del previsto
Quando ti accucci nel sogno di uno stolto

E allora porta questa belligeranza
Dove vorrai, la cura caparbia
È il prezzo della mia anima
Verso il centro della strada
Ruotando su se stessa le zanne scoperte
Azzannando lance assetate
Affonda nel freddo e purifica le tue mani

Parole di caccia
Brathos di Corallo Nera

CAPITOLO UNO

Oh, fragile città!
Dove giungono gli stranieri
Spingendo nelle fenditure
Là per abitare

Oh, città blu!
Vecchi amici si radunano sospirando
Ai piedi dei moli
Dopo la marea

Città senza corona!
Dove i passeri si posano
Nella scia dei ragni
Sugli alti davanzali

Città condannata!
La notte si avvicina
La storia si desta
Qui per abitare

Età Fragile
Fisher kel Tath

CAPITOLO DUE

Anomander non direbbe menzogne,
né vivrebbe nella menzogna,
e quella sordità potrebbe
benedirlo nei giorni e nelle notti
al di là delle piogge nere di Corallo Nera.
Ahimè, così non sarebbe stato.

...

E così scegliemmo di non sapere nulla
Del temuto scricchiolio, dello slittamento e dello schiocco
Di ruote di legno, del sussulto sulla pietra
E del forte tintinnio di catene, come se
Su qualche altro mondo sia dove l'oscurità
Emerge da una forgia maledettamente eterea
E nessun sole sorge oltre la linea ondulata
Dell'orizzonte, un qualche altro mondo non certo il nostro -
Sì benedici così, Anomander, con questa
Santimonia, questa menzogna e tenero conforto,
E gli schiavi non siamo noi, questo peso
È solo un'illusione, queste catene potrebbero spezzarsi
Con un pensiero, e tutte queste grida e
Lamenti sono meno dei sussurri
Di un cuore quiescente; è tutto tranne che una storia,
Amici miei, questa alta creatura che nega l'adorazione,
E la spada che porta non contiene nulla,
Nessun ricordo, e se esiste un luogo
Nell'intimo schema per le anime perdute
Che avanza verso un tempio sradicato
Non risiede certo in una mente difettosa
E non allineata con sobria tortuosità;
Niente è confuso come quel mondo confuso
E quel conforto ci lascia rispettosi
Ciechi e sordi e scioccamente in pace
Nel nostro luogo immaginato, questo prezioso ordine...

Soliloquio
Anomandaris, Libro IV

Fisher kel Tath

CAPITOLO TRE

E lui sapeva che restare là
Sarebbe stata un'impresa implacabile
Inarrestabile come i sacrifici compiuti
E i giuramenti di sangue pronunciati
Ne sapeva abbastanza da aspettare da solo
Prima della carica della furia del calore
I canti di vendetta
Dove le spade si incroceranno
E dove un tempo c'erano i mortali
Restano ancora i sogni di casa
Se almeno una porta dorata
Poteva essere forzata.
Ha consumato fiato nel mercanteggiare
O si è allontanato?
Ha sorriso compiaciuto
Nella ricerca del castigo?

(Guardalo, lui è là
Mentre tu resti, implacabile
Il poeta ti maledice
L'artista grida
Colui che piange
Gira il viso da un'altra parte
La tua mente è affollata
Dall'irrilevante
Dall'elenco dei dettagli
Del minuscolo
E di ogni misura
Di ciò che non significa nulla
Per nessuno

Lui assorbe da te ogni collera
Ogni crimine...
Che ti piaccia
O meno...
I sacrifici compiuti
I giuramenti pronunciati
Lui è da solo
Perché nessuno di voi osa
Stare con lui)

Contestazione di Fisher ai suoi ascoltatori,
interrompendo la narrazione di La criniera del Caos

CAPITOLO QUATTRO

Stavamo annegando tra petali e foglie
Nella Pianura di Sethangar
Dove i sogni si agitavano come eserciti sulla spianata
E cantare la bellezza di tutti quei fiori
Era dimenticare il sangue che nutriva ogni radice
Nella Pianura di Sethangar
Gridammo a gran voce per un rifugio da quella feconda tempesta
Lo slancio e la spinta di vita sui venti setaccianti
Erano aridi come la voce di un sacerdote in ardente tormento
Nella Pianura di Sethangar
E nessuna parola saggia poteva essere udita nel fragore
Dei fiori ridenti che si allungavano verso l'orizzonte
Mentre il respiro pungente ci lasciava ubriachi e traballanti
Nella Pianura di Sethangar
Dobbiamo morire nell'abbondanza della nostra dissipazione
Soccombendo ogni volta alla terra fredda e scura
Solo per erompere liberi e ingenui in una nascita innocente
Nella Pianura di Sethangar?
Quale dio calpesta questo campo la falce in mano
Per recidere la pomposa pantomima con giudizio tagliente
Prendendo dalle nostre anime tutta la volontà in fasci legati
Nella Pianura di Sethangar
Per nutrire a dovere tutte le bestie onerose?
I fiori adoreranno il dono mutevole di luce dell'albero
Le foreste si allungheranno nella dolcezza di un cielo intoccabile
Mentre i fiumi compiranno il pellegrinaggio verso il mare
E la pioggia cercherà l'unione con la carne e il sangue
Le colline resisteranno sopra ogni pianura,
anche quella di Sethangar

E così noi sogniamo la fine dell'ingiustizia
Come se rientrasse tra i nostri poteri
Là nella semplicità della nostra attenzione
Così miseramente cieca alla bellezza...

Dichiarazione (frammento)
(?) Keneviss Brot
Primo secolo del Sonno di Burn

CAPITOLO CINQUE

Prega, non parlarmi del tempo
Del sole, delle nuvole, dei luoghi
Dove nascono le tempeste
Non voglio sapere del vento che percuote l'erica
Né della neve, della pioggia, né di antiche tracce
Su pietre grigie e consunte

Prega, non m'intrattenere con i guai della malattia
Tuoi, dei tuoi parenti, della donna anziana
Alla fine della strada
Non ci dedicherò tempo né pietà, che non dona benessere,
Né pensieri, né sentimenti, né sudari tessuti
Per tentare la fortuna

Prega, raccontami di profondi abissi attraversati
Non lasciati, non aggirati, non parlarmi dei tradimenti
Che si riproducono come i vermi
Vorrei che gridassi la tua rabbia per ciò che è perduto
Ora sii forte, ora piangi, e avanza
Sulla solida terra

Prega, canta a squarciagola le infelici glorie dell'amore
Ora sofferente, ora ubriaco, ora strappato alla ragione
Nelle lacrime e nelle risate
Vorrei che trattassi con le eccentriche divinità lassù
Né preoccupazioni, né costi, né cambi di stagione
Verso i timori invernali

Cantami tutto ciò e ti troverò risoluto
Adesso sai, adesso vedi, adesso davanti
Alla tempesta ululante
Canta la tua vita come una vita senza fine
E il tuo amore, fuoco solare, sul suo cammino celestiale
Dove è nata la verità

Prega, una fine alle cose irrilevanti
Baedisk di Nathilog

CAPITOLO SEI


«Il miracolo del senno di poi sta nel modo in cui trasforma grandi geni militari del passato in idioti incompetenti, e idioti incompetenti del presente in grandi geni militari. Là c'è la porta, e assicurati di prendere con te tutte le tue pompose illusioni...».

Imperatore Kellanved
In occasione della conquista del Gran Consiglio di Falari
(La Prova di Crust)

LIBRO SECONDO


Dalle costole di lei e dai capelli delle donne
Che nuotano nei fiumi scaldati dal sole nella luce d'estate,
Da volti sereni e occhi limpidi
Che guardano fuori dalle finestre della torre quando scende la notte

Da mani avvolte intorno a pipe intagliate nell'alabastro
Quando velati inviti timidi come i boccioli nell'ombra
Invitano la danza di una vergine un amore screziato come una rosa
E una matrona rugosa non è ancora pronta a svanire

Lunghe gambe attorcigliate
Oscillano mentre una tempesta tropicale si scatena sulla bianca sabbia di corallo
E in tutti questi ricordi ho cercato
Di modellare questo amore dalla terra lavorata
Con le mie mani

E nel pergolato di fluttuanti petali intrecciati a ghirlanda
Si aggira timidamente il viso sconosciuto e familiare della donna ritrovata
Perché su questa terra la solitudine non è la benvenuta
E lei che se n'è andata deve essere sostituita

E dallo sguardo nei suoi occhi io sono un uomo complesso
Assemblato dalla pietra, i ramoscelli e i sedimenti smossi
Amanti perduti e tutti quelli che avrebbero potuto essere
Noi non dovremmo protestare né alimentare brucianti rancori
Poiché tutti i fiumi del mondo non corrono che in una
Direzione

L'Amore dello Spezzato
Breneth

CAPITOLO SETTE


«Comprendo le tue ragioni, amore mio. Ma non ti verrà sete?».

Iscrizione portata alla luce sotto la pietra di coronamento di un pozzo privato, Distretto Frontelago, Darujhistan

CAPITOLO OTTO

Quando lui non può stare solo
Nell'oscurità dove non un'ombra vive
Il cui più prezioso io rifiuta il trono
Mentre il niente afferrato in vita dura un attimo di più
Di ciò che è intagliato nelle stesse ossa
Ma qui è dove staresti
Al suo posto e dove vedresti tutto cupo e represso
Una serie di armi ognuna forgiata
Per la violenza

Quando lui non può stare solo
Dove l'oscurità scivola nell'immenso abisso
E ogni desiderio cerca una nuova casa
Mentre ogni lotta lascia il docile al più forte
E i caduti giacciono sparpagliati come sassi
Ma questa è la vita che prenderesti in mano
Per guidare lui attraverso il cammino così spezzato così agitato
Come l'arma del tuo volere ora sostenuta
In gelido equilibrio

Quando lui non può stare solo
Nell'oscurità dove ogni ombra è persa
E l'io stanco vagherà

Dove niente è abbandonato se non questo straniero protetto
In piedi contro gli eterni gemiti del vento
Ma questo è il tuo eroe e deve fare la guardia
Ai tuoi desideri spezzati la bandiera stracciata spiegata
Che si innalza al di sopra del bastione per vedere
il tuo dispetto purificato
Nel suo silenzio

Anomandaris, Libro III, versi 7-10
Fisher kel Tath

CAPITOLO NOVE

I tori camminano sempre soli verso la solitudine
Del proprio sé
Incedendo impettiti nel loro manto di sudatorio feltro
Ogni vena gonfia
Spavaldi e orgogliosi nei loro bisogni bestiali
Tonanti nel passo
Fate largo, fate largo, le spade letali
Uccidono il cuore delle damigelle
Coprite la ferita che s'allarga via via: quale dolce attenzione!
E noi dobbiamo spasimare
Davanti a occhi arrossati non troverai colpa
Nel sé così provato
E l'appassionata carica del seme più fertile
Canta come la pioggia degli dei
Fate largo, fate largo, un'altra parola audace
La ballerina teme un passo falso
Nei frettolosi tamburi della moltitudine

Zerbinotti del Passeggio
Seglora

CAPITOLO DIECI

Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce
Quando i musicisti sono avviluppati dalle fiamme
Gli strumenti ridotti in cenere
Quando i ballerini incespicano e cadono e distendono gli arti malati
La pelle sottile e putrida che scivola via

Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce
Quando le stelle che spingiamo in cielo perdono il loro ruggito
E le nuvole che creiamo con la nostra ira sono pronte a esplodere
Quando gli scintillanti principi marciano con
Sorrisi di morte
E dai loro volti crollano le maschere ingannatrici

Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce
Quando la ragione affonda negli abissi della superstizione
Muovendo una guerra di diecimila armate
Quando smettiamo di sollevare lo sguardo anche mentre cominciamo la nostra folle corsa
Nel vuoto della stupidità accompagnati dalle grida di cori celestiali

Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce
Quando i musicisti non saranno altro che bastoni neri
E gli strumenti innalzeranno il loro lamento di morte lungo la via
Quando a quelli ancora in piedi è stata strappata la lingua
Lasciando un buco dal quale soffia un vento carnale

Verrai da me e mi dirai quando la musica finisce
Il fuoco divora il mio respiro e la sofferenza riempie questa canzone
Quando le mie dita si spezzano sulle corde e cadono dalle mie mani
E questa danza contorce ogni muscolo come una fune incandescente
Mentre la tua risata segue il mio corpo accasciato

Non verrai da me e mi dirai quando la musica finisce
Quando potrò balzare via e affrontare un dio o un migliaio di dei
O niente del tutto in questa benedetta gioia dell'oblio
Quando potrò spalancare questo contenitore
e liberare la furia amara e crudele
Contro tutti i folli stolti che affollano la porta in una fuga disordinata

Guardami e guardami con occhi spalancati e attoniti
Con incredulità con orrore con indignato risentimento
E i No urlati sono come colpi di tamburo
che annunciano una verità
La musica finisce amici miei, miei vili e spregevoli amici,
e guardatemi
Guardatemi sbattervi la porta... in faccia!

La musica finisce
Fisher kel Tath

CAPITOLO UNDICI

Chi sei tu per giudicare se lei sia giovane
o vecchia, e se stia tirando su o giù
il secchio nel pozzo?
E se sia graziosa o insignificante come biancheria stinta,
se sia una vela trasportata dal vento dell'estate,
splendente come gli occhi di una fanciulla sopra un mare blu?
Il suo incedere è piacere e promessa
di sogni come se la terra potesse cantare la sua fertilità,
come allegre farfalle in un campo fiorito,
o questa sella si è accasciata in cascate
di frutti maturi e non cavalca più
tra orti in fiore? Chi sei tu
per ingabbiare nel presuntuoso ferro
quel mistero che ci chiama alla vita dove oscilla
il traboccante secchio, continuamente sospeso
tra oscure profondità e luce corale. Lei è bella
e anche questa è un'esortazione criminale, e
niente che valga la pena verrà trovato in relazione
a te che faccia qualcosa di più che tendere
questa fune sfilacciata: che vergogna!
Il rifiuto è portatore di profonde ferite e lei
se ne va e si allontana confusa.
Non osare parlare di equità, non osare avanzare
crudeli giudizi quando io sono qui a guardare
e tutti i calcoli tra un battito di ciglia e l'altro
invitano la moltitudine al disprezzo; e guarda
quella vela che scivola sempre più piccola
al di là di te, come è suo privilegio là sul mare di fiori.
Dolci fragranze che turbinano nella sua scia,
e mai ti raggiungeranno, e questo è
equilibrio, è misura, è l'osservazione
di stranieri che nascondono le loro lacrime
quando volgono le spalle.

Giovani contro un muro
Nekath di Gattoguercio

CAPITOLO DODICI

Dove sarò
Quando le mura cadranno
A est del sole che sorge
A nord del volto dell'inverno
A sud di dove nascono le stelle
A ovest del sentiero della morte

Dove sarò
Quando i venti soffieranno impetuosi
Fuggendo dall'alba
Urlando con lingue di ghiaccio
Gonfiati dal sorriso del deserto
Coperti della polvere delle cripte

Dove sarò
Quando il mondo cadrà a pezzi
E io rimarrò esposto
Alle armi infallibili
Del tanto odiato nemico

Come potrò affrontare
Queste forze oscure
Barcollando sotto ogni colpo
Accecato dal dolore lancinante
Mentre tutto mi verrà tolto
Tutto mi verrà crudelmente strappato

Non parliamo di coraggio
E neppure di forza d'animo
I doni della saggezza
Sono troppo roventi per essere toccati
Il desiderio di pace
Spezza il cuore

Dove sarò
Nella polvere di una vita finita
Solo davanti ai rimpianti
Che flagellano il viso conosciuto
Fino a quando solo gli stranieri
Assisteranno alla mia caduta

Solo stranieri
Fisher kel Tath

LIBRO TERZO


Continua fino al prossimo istante
Non pensare adesso, risparmiati
Per quando il pensiero mostrerà
Il suo volto inutile
Quando sarà troppo tardi e il timore svanirà
Nella rincorsa di un riparo

Continua fin oltre quella buca
Così che venga meno la sua tormentosa presenza
E niente val la pena di fare
Nell'ottusa grazia
Quando tutte le legittime supposizioni
Sovrastano le tue grida

Continua fin dentro quella profonda voragine
Non vuoi sapere
Potrebbe sprofondare e portare alla tua mente
Crudeli ricordi
Quando tutto quello che avresti potuto fare è ormai passato
No non ti angustiare

Continua fino a quell'angolo
È inutile, e allora risparmiami il dolore
Non ti piaceva il prezzo da pagare, troppo elevato
La ferita più crudele
Quando tutto quello che cercavi era un dolce piacere
Fino alla fine dei tuoi giorni

Continua fino a quando verrai respinto
Grida la tua angoscia, grida a squarcia gola
Non hai mai immaginato non hai mai saputo
Ciò che allontanandoti sarebbe accaduto
E ora ulula la tua paura in ondate di incredulità
È morto è finito

Continua fino in fondo
Strappa gli occhi di parenti urlanti
Nessun lascito attende i tuoi figli
È stato ucciso, è stato ucciso
Il futuro è fuggito a nutrire qualche gloria oscura
Il mondo è finito. Finito.

Confessione in punto di morte di Siban
Siban di Aren

CAPITOLO TREDICI

Lo guardammo avvicinarsi da oltre una lega
Barcollante sotto il peso di ciò che portava
Tra le braccia
Pensammo indossasse una corona ma quando si avvicinò
Il diadema si rivelò la pelle di un serpente
Che si mordeva la coda
Ridemmo e condividemmo la brocca quando lui cadde
Applaudendo quando si risollevò
Con movimento lenti
Ci zittimmo quando arrivò
E coi nostri occhi vedemmo il fardello
Che proteggeva dal pericolo
Restammo seri in volto davanti al suo sorriso di sollievo
E ci disse che quel giovane mondo che aveva trovato
Ora era nostro
Noi restammo a guardare come se fossimo divinità splendenti
Contemplando un'abbondanza di doni immeritati
Sfoderando i coltelli
Baldanzosi nell'orgoglio recidemmo porzioni insanguinate
Spartimmo quel radioso stillante bottino
E mangiammo a sazietà
Poi lo vedemmo piangere quando niente era rimasto
Arretrare con occhi colmi di dolore e sgomento
Le braccia abbandonate
Ma di ogni mondo i lupi faranno una carcassa
Rispondemmo rivelando la nostra natura
In tutta innocenza
Proclamammo con ardore la nostra umile purezza
Sebbene lui ci voltò le spalle e non udì
Mentre il sapore diveniva sempre più amaro

E il tradimento del veleno strisciò nelle nostre membra
Lo guardammo allontanarsi ormai a una lega e forse più
Il suo cammino solitario
La sua dolente partenza dalla nostra umanità
Il suo allegro annientamento del nostro scriteriato io
Condannato a morte dal morso del serpente

Gli ultimi giorni del nostro retaggio
Fisher kel Tath

CAPITOLO QUATTORDICI

Sotto lo scudo percosso del cielo
L'uomo siede su una sella nera su un cavallo nero
I capelli lunghi e grigi fluttuanti intorno all'elmo di ferro
Non sa niente di come sia giunto qui
Solo che dove si è trovato a essere è in nessun luogo
E dove deve andare è forse vicino
La sua barba è il colore della neve sporca
I suoi occhi sono occhi che non si scioglieranno mai

Sotto di lui il cavallo non respira
Né respira l'uomo e il vento geme
Sulle ammaccature del suo usbergo arrugginito
Ed è troppo girarsi all'avvicinamento
Di cavalieri uno da destra l'altro da sinistra
Su cavalli morti con occhi vuoti tirano le redini
Restano in un silenzio stranamente famigliare
Proteggendo il suo comando

Sotto quei tre il terreno è privo di vita
E in ogni granello di cenere sono i lamenti
Di tristi ricordi che scivolano nel rimpianto
Ma tutto è passato e i cavalli non si muovono
E così lui guarda a destra la mascella contratta
Verso l'uomo con un occhio che un tempo conosceva,
anche se non bene
Rispondendo al sorriso beffardo con improvvisa urgenza
E così chiede: «Stanno aspettando, Caporalmaggiore?».

«Sparsi sulla pianura morta, Sergente,
non era ciò che volevate?».
A quelle parole lui non poté che stringersi nelle spalle
e posare lo sguardo sull'altro.
«Osservo il vostro abbigliamento e so di conoscervi, signore, ma non ricordo».
Barba nera e viso scuro, una fronte come basalto crepato
Un uomo in pesante armatura che pochi potrebbero sopportare
E accetta l'osservazione con un sorriso
«E allora se volete, sappiatelo, Brukhalian delle Spade Grigie».

Sotto quei tre il tuono cavalca l'ignota terra
Niente è repentino ma cresce come un cuore che si risveglia
E le eco rotolano dallo scudo soprastante
Come il ferro risuona la carica di ciò che deve essere
Così ancora una volta, gli Arsori di Ponti marciano verso la guerra».
E Brukhalian aggiunge: «Anche le Spade Grigie che caddero
E questo che tu chiami Caporalmaggiore è rinato solo per morire,
un nuovo ponte forgiato tra voi e me, buon signore».

Si girarono allora sui loro destrieri privi di respiro
Per esaminare i ranghi sparsi nella pianura
Che avanzano verso la guerra da dove e da ciò che un tempo sono stati
Quando tutto quello che era conosciuto è tutto quello che uno conosce di nuovo
E in questo luogo l'erica non sboccia mai
Il sangue che deve essere versato non viene mai versato e non scorre mai
Iskar Jarak, Uccello Che Ruba, siede in sella a un cavallo nero
E aspetta di comandare ancora una volta

Spada e Scudo
Fisher kel Tath

CAPITOLO QUINDICI

Ci definiresti deboli?
La paura scivola fuori dalla bocca
Ogni voce nella tua lista è un attacco
Che affonda in te
Mostrando il terrore
Che distrugge il potenziale per lo stupore

Con voce monotona esponi il tuo pensiero
Come se non affermassi altri se non l'ovvio
Ed è così ma non nel modo che tu pensi
Il patos rivelato è la tua pochezza
Di saggezza travestita da insignificante dialettica
Dalla tua torre del ragionamento

Come se solo i muscoli parlassero di forza
Come se l'altezza misurasse la circonferenza della volontà
Come se il fuoco domestico non potesse divorare una foresta
Come se il coraggio fluisse via perduto ogni mese
In fiumi di sangue morto

Chi è costui per dare voce a simili dubbi?
Sacerdote di un culto falso nella sua divisione
Io ero là il giorno in cui la folla si svegliò
E prese d'assalto il tempio di semi-uomini spaventati
Tu te ne stavi a bocca spalancata dietro di loro
Mentre i tuoi insegnamenti si rivelavano sbagliati

Arretra dalla vera rabbia
Fuggi se puoi da questa forza crescente
La forma dell'ira contro le tue riconosciute
Giustificazioni è la mia disciplina di soldato
Sicura nell'esecuzione e nel singolare obiettivo
Di sistemare la tua testa in cima alla lancia

Ultimo giorno della Setta dell'Uomo
Sevelenatha di Genabaris
(citato in "Trattato sulle filosofie insostenibili
dei culti" Genorthu Stulk)

CAPITOLO SEDICI

E queste cose non sono mai state tanto preziose
Ascolta l'uccello in gabbia mentre parla
Con la voce di un uomo moribondo; quando lui se ne sarà andato
La voce vivrà per salutare e dispensare vuote
Assicurazioni con casuale pathos

Io non so se potrei vivere con tutto ciò
Se potrei armarmi mentre il becco inumano
Si apre al ricordo di un uomo morto, la testa inclinata
Come a incanalare lo spirito di colui
Che immagina un'assenza di senso, un vuoto in attesa

La gabbia è bloccata e di notte scende il velo
A zittire le parole di impossibili apostoli
Spiriti di semidei e abissi immensi, nuvole impenetrabili
Tra i vivi e i morti, tra chi c'è e chi è andato
Dove nessun ponte può addolcire il passaggio del dolore

E queste cose non sono mai state tanto preziose
Ascoltare l'uccello mentre parla e parla
E parla, quello che è svanito via
Il padre defunto conoscendo ciò che è sconosciuto
E parla e parla e parla
Con la voce di mio padre

Uccello in gabbia
Fisher kel Tath

CAPITOLO DICIASSETTE


Il mio miglior studente? Un giovane uomo, fisicamente perfetto. Guardare lui era vedere lo spadaccino perfetto. La sua disciplina era fonte di soggezione; la sua forma era l'eleganza personificata. Sapeva spegnere una dozzina di candele con affondi successivi, ogni affondo identico a quello precedente. Sapeva infilzare una mosca ronzante. Nel giro di due anni non potei fare più nulla per lui, poiché mi era ormai di gran lunga superiore.
Al suo primo duello non ero, ahimè, presente, ma mi venne descritto nei dettagli. Il suo talento, la sua perfezione nella forma, la sua precisione, la sua possanza muscolare. Rivelò un solo difetto.
Era incapace di combattere contro una in carne e ossa. Un avversario di capacità medie può essere incredibilmente pericoloso, nella sua goffaggine può sorprendere, e una preparazione mediocre può confondere le più brillanti capacità di difesa. La totale imprevedibilità di un vero avversario in un duello per la vita o la morte offrì al mio studente la sua ultima lezione.
Si dice che il duello durò una dozzina di battiti. Da quel giorno, la mia metodologia di insegnamento è cambiata. La forma è molto piacevole, la ripetizione persino essenziale, ma l'esercitazione al vero affondo con stoccata deve iniziare entro la prima settimana di allenamento. Per essere un duellante, uno deve duellare. La cosa più difficile da insegnare è come sopravvivere.

Trevan Ault
II secolo, Darujhistan

CAPITOLO DICIOTTO

Lui è invisibile, uno in una folla che nessuno nota
Non oltrepassare quel volto dimenticabile
Non strisciare dentro alla ricerca del ruscello
Mentre scorre nel buio orrore da un luogo all'altro

Lui è una cosa comune, in alcun modo particolare
Che non permette a nessuno l'accesso agli sconnessi gradini
Giù da quegli occhi che annegano la stella solitaria
Noi condividiamo coraggiosamente queste umane profondità

Non tuo fratello, non il salvatore di qualcuno
Lui incalzerà più da vicino per cercare i tuoi abiti
Spingerà da parte la debole mano che cerca di accendere
La luce della compassione (l'umidità, morendo sorge)

Lui ha estirpato il suo giardino
E ha colto ogni ultimo rimasuglio di carne calda
Con paura come artigli e denti famelici quando da solo
Vaga per questa terra desolata di brace e cenere

Io guardo con terrore mentre lui sale sul nostro trono benedetto
Per deporre il suo mantello di vergogna come un sudario
E risveglia in noi l'illusione di un nido caldo
Un santuario che lui non conosce, uno nella folla

Lui trae il suo potere dalla nostra indifferenza
Sminuzzando il banale e il comune
Nessuna volontà congiunta da opporgli in sfida
E uno a uno, lui ci uccide

Un re prende il trono
(incisa sul Muro dei Poeti, Prigioni Reali, Unta)

LIBRO QUARTO


Come ardesia spezzata
Prendiamo il nostro odio
E creiamo alte cataste
Che rotolano sulle colline
Una linea irregolare per tracciare
La nostra ascesa e la nostra caduta
E io vidi nella luce suffusa
Dell'alba
Corvi allineati in fila
Lungo il muro sbilenco
Venuti a nutrirsi

Ossa sparpagliate
Ai piedi del muro
Rovine accatastate
Di assalti passati
I corvi si guardano intorno
Per scorgere gli avanzi
Su entrambi i lati
Poiché nonostante la sua debolezza
Il mondo non può spezzare
Ciò che noi facciamo
Del nostro odio

Ho guardato i minatori
Trasportare le rocce grigie
Lavoravano
Si massacravano e percorrevano
Infallibilmente modesti sentieri
Un pezzo dopo l'altro
Prepararono una carneficina
Di altri innocenti
Mentre borbottavano
Su ondate di caldo
E buone azioni

Noi i Costruttori
Hanasp Tular

CAPITOLO DICIANNOVE

Prega di non sentire mai un respiro impreciso
Catturato nella sua irregolare ragnatela
Alla fine tutti gli dei voltano le spalle
E non un sussurro risuona
Non gettare una vita aspettando la morte
Catturato nella sua irregolare ragnatela
Che aleggia nell'istante successivo che dovrai affrontare
Mentre risuona il tuo ultimo sussurro
Prega di non sentire mai un respiro irregolare

Ragnatela irregolare
Fisher

CAPITOLO VENTI


In vuoti boschetti e stanze del campanile
La vite arretra e il muschio rotola dentro
Il vuoto da dove è giunto
In basse tombe e cripte aperte
Le ossa tremano e le ombre fuggono
Negli spazi tra respiri
In torri inclinate e ingressi polverosi
Gli echi tacciono e i sussurri muoiono
Uomini in maschere gettano dadi contro le pareti
In stipi oscuri e sotto le assi dei letti
Marionette scuotono le braccia e occhi dipinti si sgranano
Alla canzone che scende dalle colline
E l'anima sussulta nella sua caverna
Picchiata e indebolita, terrorizzata
Questa è la musica della bestia
Il clamore del mondo in trappola
Inizia la sua folle carica
La caccia comincia amici miei
I Segugi sono tra noi.

Preludio
Pedaggio ai Cani

Fisher

CAPITOLO VENTUNO

Amico mio, questo non è il luogo
I fiori recisi giacciono sparsi sul sentiero
E la luce della luna luccica
In ciò che gli steli sanguinano

Nel giorno appena perduto
Ho guardato una vespa nera schizzare verso la superfice
Di una ragnatela, e ho visto il ragno cadere
E poi essere catturato a mezz'aria

I passi non lasciano traccia
Nella scia dell'ira di una creatura affamata
Puoi solo giacere nella speranza, sognando
Che lei abbia solo sfiorato il terreno

E che danzando sia scivolata via come un sospiro
Nascondendosi sotto foglie oscillanti al vento
Mentre la cacciatrice ronza e ascolta
Ma tu prega perché niente venga trovato

Amico mio, questo non è il tuo volto
Così pallido e immobile e che mai più riderà
Quando è giunta la luce della luna e poi si è fermata
Fredda come argento nella radura

Ripensa alla giornata, perduta per sempre
Guarda nella notte, dove le cose si confondono
La ragnatela si distende vuota, il vento geme
In fili di canzoni assenti

(Canzone de) Il vecchio amico
Fisher

CAPITOLO VENTIDUE


Lui avanzò fino alla fine del sentiero e mi chiese,
«Vedi ciò che ti aspettavi?».
Una domanda spontanea, che rotolò via.
Una domanda emersa dalle pietre e persa
In pensieri di ciò che il destino crudele avrebbe ora decretato.

Lui si lasciò andare nella polvere e sul suo volto apparve il dolore,
«Hai visto solo ciò che credevi?».
E io abbassai lo sguardo dove il sangue aveva lasciato le sue tracce
Il peso di ciò che è dato, di ciò che è ricevuto
Di ciò che annuncia l'ultima marcia funebre di questa lunga campagna.

«No», risposi, «non sei ciò che mi aspettavo di vedere».
Giovane come la speranza e sincero come l'amore era il mio nemico.
«Gli scudi sono stati lucidati, splendenti come un mare inondato dal sole,
E il coraggio ormai in procinto di affogare mi ha trascinato verso questa calamità.
Le aspettative hanno decretato la mia morte».

Lui parlò e disse, «Non puoi combattere contro l'uomo che eri,
E io non posso uccidere l'uomo che diventerò un giorno,
Il nostro nemico sono le aspettative scagliate avanti e indietro,
I ricordi che hai scelto e i sentieri che io percorrerò.
Assassini di sogni, seminatori di rimorsi, ecco ciò che siamo».

Soldato alla fine dei suoi giorni
(frammento)
Des'Ban di Nemil

CAPITOLO VENTITRE

Chiedi ai morti cosa affrontano
Mentre afferrano il sipario e lo sollevano
Su queste piste pietrose su questi mondi ciechi
Dove andare a tentoni significa ricordare
Tutti i preziosi monili della vita

Chiedi ai morti cosa vedono
In quell'ultima occhiata alle spalle
Queste corde prive di nodi
Dove ogni nerbo è teso
Per allungarsi e toccare un'ultima volta

Chiedi ai morti che cosa sanno
Quando sapere non significa nulla
Braccia piene e cariche di cianfrusaglie
Come per costruire di nuovo una casa
In luoghi dove non siamo mai stati

Chiedi ma i morti non risponderanno
Dietro al velo di acqua salata
Gridano ora con voce stridula tra i resti putrefatti
Quando i vermi svaniscono
Nella ricchezza del silenzio

I tesori perduti di Indaros
Fisher kel Tath

CAPITOLO VENTIQUATTRO

«Non esiste lotta troppo dura, né differenze troppo
schiaccianti, poiché anche se falliremo, se dovessimo cadere -
sapremo di avere vissuto».

Anomander Rake
Figlio dell'Oscurità

EPILOGO

Inveisci e poi dimmi che
Non tutte le storie sono un dono
Quando il tormento affonda
Ancora di più il coltello
E il sangue è diluito dalle lacrime

Grida per l'ingiustizia
Che non tutte le storie sono un dono
In un mondo aspro di conflitti
Che ci lascia spogli
Le gesta che impallidiscono con gli anni

E io incontrerò il tuo sguardo
Che non sussulterà né sarà timido
Mentre avvolgerò la morte nella vita
E ti sconcerterò con una
Schiera di paure mortali

E allora io dirò che
Ogni racconto è un dono
E le cicatrici che entrambi portiamo
Passeranno facilmente inosservate
Nella distanza tra noi.

Anatema del Bardo
Fisher kel Tath




Edited by SparklingLu - 19/11/2020, 18:23
 
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